Chernobyl

2010 © Photo Daniele Gussago

La città di Pripijat è stata evacuata in tutta fretta e con alcuni giorni di colpevole ritardo da parte delle autorità sovietiche che non avevano ben compreso l’entità del disastro alla centrale di Chernobyl. Agli abitanti fu ordinato di preparare solo l’essenziale per una assenza dalle proprie case di pochi giorni. Le cose sono andate ben diversamente e pochi giorni sono divenuti un divieto assoluto di accesso ad un’area di 30 km di raggio attorno alla centrale esplosa. Pripjiat è passata in poche ore da ambita città modello a deserta città fantasma. La quantità di materiale ancora presente nelle case e negli edifici pubblici è impressionante. Tutto testimonia una fuga precipitosa da un nemico invisibile e misterioso ma che si sapeva essere presente nell’aria. Inutili ovviamente i tentativi di bloccare la radioattività con le maschere antigas distribuite agli alunni delle scuole. Maschere presenti in abbondanza in previsione di un catastrofico scontro armato con l’Occidente. Il tappeto di inutili maschere antigas è l’emblema di una sconfitta del sistema società che non è stato in grado di offrire risposte adeguate al disastro colposo. Il tempo qui è totalmente congelato a quel lontano esperimento del 1986. Si ha l’impressione di visitare un museo che raccoglie il simbolismo del socialismo reale sovietico. Architettura, cartelloni, quadri e sculture celebrano l’uomo nuovo sovietico proiettato nel futuro. L’organizzazione della città è molto efficiente e razionale, abbondano i parchi, le strutture sportive e ricreative. Ora c’è solo la vegetazione, alterata dalle radiazioni, che si insinua negli edifici, che cancella le strade e le piazze trasformandole in bosco. La contaminazione non è uniforme ma si presenta a macchie localizzabili solamente dal trillo del contatore Geiger. Il pericolo maggiore è nei pressi di grosse masse metalliche come le giostre e la ruota panoramica.

Riconoscere quei luoghi visti nei documentari dell’epoca e trovarli scheletriti dal tempo e dai rigidi inverni dell’Est. Rimanere soli per lunghi minuti tra queste mura e sapersi circondati da un nemico invisibile indebolito ma ancora presente e di cui se ne avverte nettamente la silenziosa minaccia. Udire come unico rumore quello dei propri passi e del proprio respiro nel silenzio di tomba che regna nelle stanze e nelle vie. Tutte queste sensazioni entrano stabilmente nell’anima di chi visita Pripjiat.
Ricostruzione è il termine che più ricorre dopo un evento catastrofico proprio a ribadire la volontà dell’uomo di non arrendersi davanti alle avversità. Ma diversamente da altri luoghi colpiti da calamità naturali o da conflitti armati qui non esiste la possibilità, la prospettiva, di una ricostruzione, di un ritorno alla vita. Qui la vita umana è impossibile e lo sarà ancora per molte decine di anni sebbene apparentemente la natura sia rigogliosa, come se stesse attuando una vendetta nei confronti degli uomini. Quest’area è un buco nero sul territorio ucraino e bielorusso. Un tabù che si avverte parlando con gli abitanti di Kiev. Per loro il nostro viaggio a Chernobyl è una follia che li indispettisce. Le ferita è ancora fresca. Il tasso di tumori è molto più alto del normale. Sanno che la maledizione del reattore numero 4 non è ancora finita. E’ come se cercassero di negare che quel territorio faccia parte della loro patria. Lo vorrebbero allontanare, farlo scomparire per sempre.

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