La Memoria dei sopravvissuti deve divenire Memoria della società o non sarà servita a nulla
Fotografie Daniele Gussago
Contributo scientifico dott.sa Simona Saggiomo
Il progetto nasce come occasione di confrontarsi con la Memoria soggettiva degli eventi rappresentati e permettersi di chiedere quanto e come rievocano ciò che già si conosce; questo per capire come ogni evento, benché oggettivamente rappresentato nero su bianco, sia elaborato personalmente in base ai propri costrutti psicologici , e di come questi modifichino il ricordo di un avvenimento storico. Nello specifico non si tratta di criticare, cercare una retorica o creare miti storici, ma confrontare ciò che conosciamo (elementi soggettivi) e ciò che la fotografia ci permette di sperimentare.
Le immagini rappresentano i luoghi dove si sono verificati gli eventi analizzati. Il compito di rappresentare la Memoria di questi eventi è quindi affidato interamente al luogo dove si è svolto. Nelle fotografie non viene rappresentata nessuna figura umana riconoscibile. E’ il luogo che è contemporaneamente protagonista e scenografia. Si tratta infatti di posti che vanno idealmente visitati in solitudine. L’esclusione dalle immagini della figura umana proietta lo spettatore in una dimensione che favorisce l’elaborazione autonoma di un ricordo, che può essere personale, se lo spettatore ha avuto esperienza diretta con uno degli eventi, oppure sociale, se non si è avuta una conoscenza diretta ma solo una elaborazione basata su informazioni, magari parziali e frettolose, provenienti dai normali media.
I fatti presi in esame sono, in ordine cronologico:
1. I campi di concentramento di Auschwitz e Mauthausen, come simbolo della “Memoria storica”;
2. La tragedia del Vajont, come emblema di “Memoria dimenticata”;
3. Il disastro di Chernobyl, come esempio di “Memoria tecnologica”;
4. La guerra in Kosovo, come dimostrazione della “Memoria di una guerra”;
5. Il terremoto dell’Aquila, come dimostrazione di una “Memoria da ri-costruire”.
Questi eventi sono stati scelti come esempi di eventi tragici che possono colpire le nostre Comunità determinati per lo più da azioni di gruppi di persone che in epoche e con finalità diverse hanno causato grossi danni alla società e leso diritti fondamentali dell’uomo quali la Libertà di scegliere ciò che è meglio per Sè, la Sicurezza delle nostre città, e la Salute psico-fisica.
Campi
Vajont
Il disastro del Vajont accadde la notte del 9 ottobre del 1963 alle ore 22.39, quando dal monte Toc, dietro la diga del Vajont, si staccò una frana di 266 milioni di metri cubi di roccia, che precipitò nel bacino idroelettrico.
La massa franosa provocò un’onda di 50 milioni di metri cubi d’acqua, che investì prima i paesi posti sulle sponde del lago e poi superò la diga, proiettandosi verso la valle del Piave. Qui devastò Longarone, Pirago, Villanova, Faè, Rivalta, parte di Codissago e Castellavazzo. Nel disastro persero la vita 2000 persone: le vittime accertate furono 1910, delle quali 1458 risiedevano a Longarone, 111 a Castellavazzo, 158 a Erto e Casso, 54 stavano nei cantieri di lavoro della Sade e 129 di altri luoghi. La drammaticità di questo disastro è legata alla numerosità delle vittime e alla devastazione di molti paesi, ma soprattutto è acuita dalla sua prevedibilità.
La costruzione della diga a doppio arco più alta del mondo fu accompagnata da perplessità, timori e ammonimenti contrari alla sua realizzazione. I dubbi sulla stabilità delle sponde del bacino ripetutamente sollevati da autorità locali, abitanti e geologi furono ignorati dalla ditta costruttrice dell’impianto, che prestò attenzione agli evidenti segnali di pericolo solo quando la catastrofe era ormai imminente. Frane, scosse sismiche, boati e fenditure del terreno caratterizzarono il frenetico susseguirsi di eventi che animarono gli ultimi giorni che precedettero la catastrofe.
L’incontrollabile ondata d’acqua, preceduta da un forte vento, travolse case, strade, piazze e ponti e investì la popolazione inerme, sorpresa nel sonno e nelle proprie case, disseminando nel suo percorso centinaia di cadaveri. La vasta portata di quest’evento traumatico è legata alla perdita della continuità familiare, territoriale e culturale subita dai superstiti. Alla drammaticità del disastro si aggiunsero poi la disperazione per l’impossibilità di ritrovare e riconoscere molte vittime, l’amarezza per le vicende processuali e per le vertenze civili e le difficoltà che caratterizzarono la lunga opera di ricostruzione
Chernobyl
La città di Pripijat è stata evacuata in tutta fretta e con alcuni giorni di colpevole ritardo da parte delle autorità sovietiche che non avevano ben compreso l’entità del disastro. Agli abitanti fu ordinato di preparare solo l’essenziale per una assenza dalle proprie case di pochi giorni. Le cose sono andate ben diversamente e pochi giorni sono divenuti un divieto assoluto di accesso ad un’area di 30 km di raggio attorno alla centrale esplosa. Pripjiat è passata in poche ore da ambita città modello a deserta città fantasma. La quantità di materiale ancora presente nelle case e negli edifici pubblici è impressionante. Tutto testimonia una fuga precipitosa da un nemico invisibile e misterioso ma che si sapeva essere presente nell’aria. Il tempo qui è totalmente congelato a quel lontano esperimento del 1986. Si ha l’impressione di visitare un museo che raccoglie il simbolismo del socialismo reale sovietico. Architettura, cartelloni, quadri e sculture celebrano l’uomo nuovo sovietico proiettato nel futuro. L’organizzazione della città è molto efficiente e razionale, abbondano i parchi, le strutture sportive e ricreative. Ora c’è solo la vegetazione, alterata dalle radiazioni, che si insinua negli edifici, che cancella le strade e le piazze trasformandole in bosco.
Ricostruzione è il termine che più ricorre dopo un evento catastrofico proprio a ribadire la volontà dell’uomo di non arrendersi davanti alle avversità. Ma diversamente da altri luoghi colpiti da calamità naturali o da conflitti armati qui non esiste la possibilità, la prospettiva, di una ricostruzione, di un ritorno alla vita. Qui la vita umana è impossibile e lo sarà ancora per molte decine di anni sebbene apparentemente la natura sia rigogliosa, come se stesse attuando una vendetta nei confronti degli uomini.
Kosovo
Per poter capire la situazione del Kosovo bisogna assolutamente abbandonare le categorie del giusto/sbagliato, torto/ragione, vittima/carnefice. L’etnia albanese è stata a lungo perseguitata dall’etnia serba. Il progetto della Grande Serbia che doveva trasformare in senso nazionalista la federazione Yugoslava è partito dalla negazione dell’autonomia albanese. Il progressivo allontanamento da ogni incarico pubblico degli albanesi, l’eliminazione di buona parte della classe dirigente e degli intellettuali ha notevolmente impoverito il patrimonio sociale degli albanesi. Dopo l’intervento NATO e il conseguente ritiro delle milizie e dell’esercito serbo sono iniziati i “regolamenti di conti”. Il gergo della malavita si addice alla cultura del clan chiuso tuttora molto forte in Kosovo. Un retaggio antico che la mancanza di leadership culturalmente mature non consente di correggere. Da qui alcuni “errori” come la distruzione di chiese ortodosse, la segregazione in ghetti di buona parte dell’ormai ridotta e impotente minoranza serba, il boicottaggio di buona parte dei tentativi di integrazione delle due etnie. A causa di questi errori si sta rapidamente esaurendo il patrimonio di solidarietà internazionale accumulato dagli albanesi durante gli anni di oppressione e feroci pulizie etniche. Vincitori, con l’aiuto NATO, della guerra stanno perdendo, nonostante l’aiuto ONU, la pace.
L’Aquila
Il 6 aprile 2009, alle ore 3:32, nelle vicinaze della città de L’Aquila, si verifica un terremoto con magnitudo pari a 5,9 della scala Richter e che provoca 308 morti e 1500 feriti. Questo terremoto è stato senza dubbio uno dei più “mediatici” eventi degli ultimi anni. Seguito ad uno sciame sismico lunghissimo e snervante per la popolazione abruzzese, annunciato da una previsione che tuttavia sbaglia luogo e data e alla fine con la città capoluogo dell’Abruzzo diventare, dalla sera alla mattina, sede del G8 che viene rapidamente trasferito dall’isola della Maddalena alla Caserma Coppito della Guardia di Finanza. La rilevanza internazionale dell’evento fa ben sperare per un rapido e consistente afflusso di fondi e di progetti per la ricostruzione.
Questo reportage è datato settembre 2010 e dimostra da una parte la notevole opera di consolidamento che tuttavia non è stata seguita da un altrettanto efficace inizio di ricostruzione. La visita nella Zona Rossa, accompagnato dai Vigili del Fuoco e previa identificazione ai check point militari, restituisce una sensazione di sospensione, di attesa. Per molti aquilani l’accesso a questa zona è vincolato al solo edificio di proprietà e comunque sempre scortati. Come ovunque in Italia, i nuclei storici delle nostre antiche città sono il cuore dell’attività commerciale e sociale. Privare una città italiana del suo “centro storico” è come disintegrare una struttura eliminando il suo fulcro e creando in tal modo varie entità anonime, prive di personalità e di servizi adeguati come nel caso degli edifici del Piano CASE.
Questo sembra il triste destino di L’Aquila, città distrutta e ricostruita varie volte, ma che in questo caso rischia di diventare un’entità “frattale”, divisa in tanti pezzi pronti per essere divorati dalle fameliche fauci di mafie e mal’affari di varia origine.